Emilio Solfrizzi

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La Gazzetta del Mezzogiorno – 27 febbraio

Agata, i sogni non si spengono mai

VITO ATTOLINI

IL NUOVO FILM DI SOLDINI. Con Emilio Solfrizzi, Licia Maglietta e Giuseppe Battiston.

Parafrasando il titolo di uno suo film si direbbe che sempre più Silvio Soldini si rivela un regista “diviso in due”. Definizione, se tale vuol essere, tutt’altro che limitativa e da non prendere alla lettera, anche perché sarebbe davvero difficile stabilire netti confini fra le due parti in cui consiste la sua personalità . Basti ricordare, fra gli ultimi suoi film, Le acrobate, col suo lento oscillare fra realismo e intimismo, il quasi inavvertibile trapasso da una descrizione perfino minuziosa del quotidiano, del vissuto, ad una sorta di rappresentazione sospesa e trasognata.Pane e tulipani insegni. E da una costola di quest’ultimo film, che tanto successo ha riscosso nelle passate stagioni, nasce ora Agata e la tempesta (il titolo si richiama ad un verso di Alda Merini: un libro della nostra poetessa, appunto,Agata sfoglia in una delle sequenze iniziali del film).

È facile desumere perciò come Soldini abbia un posto tutto suo nel panorama del cinema italiano odierno, troppo affollato di trenta-quaranta-cinquantenni irrimediabilmente in crisi, coniugale e no. Salutarmene lontano da siffatti patemi, egli tenta una strada ben più originale, di cui tuttavia è possibile individuare in certa nostra tradizione letteraria novecentesca qualche antecedente: in quel realismo evanescente che un tempo si definì magico e che nei suoi film si colora infatti di venature surreali.

Nonostante il titolo, Agata e la tempesta si muove lungo tre strade parallele, corrispondenti ai tre personaggi centrali, le cui vicende si intrecciano fra loro per sfociare infine in un finale drammatico, che a sua volta sfuma poi nei toni fin allora predominanti della commedia. Agata, Gustavo e Romeo sono, a loro modo, fratelli, più per elezione che per legami di sangue. Anche quando questi si confondono e mutano in un senso diverso da quello che si era creduto fin allora, resta intatta quell’armonia che fra loro viene ad istaurarsi quasi naturalmente. L’occasione che svela loro un altro volto della realtà è un’agnizione, proprio come quella delle antiche commedie: si scopre infatti che Gustavo e Romeo sono fratelli, sia pure di padre diverso. Perciò Agata che credeva di essere la “sorella” del primo dei due non ha con lui legami di sangue. La rivelazione mette in moto un meccanismo che porta fatalmente i tre a incontrarsi, secondo i modi narrativi propri del feuilleton ottocentesco, suggeriti dagli inserti in bianco e nero, che riassumono gli antecedenti della storia, come nei romanzi popolari trasferiti sullo schermo del nostro cinema degli anni Cinquanta.

Con un effetto di straniamento che Soldini ripropone ancora in un altro brano, ricalcato sull’esempio di quel cinema culminato in film come Catene, che Agata vede da spettatrice cinematografica, ma immaginandosi nel contempo interprete di un classico mélo d’epoca. Agata, intelligente libraia, insistentemente amata da un uomo di tredici anni più giovane (e per di più sposato, l’ottimo Claudio Santamaria, che finirà con l’innescare un altro equivoco nell’equivoco) è dotata di un magnetismo che le crea più di un problema: le sue accensioni interiori si ribaltano nella sua capacità di oscurare l’ambiente in cui si muove, facendo fulminare, ad esempio, le lampadine. Gustavo riceve la sconvolgente notizia di una nascita diversa che rimette in questione la sua identità e ciò, insieme con un comprensibile spaesamento, provoca qualche inconveniente nella sua vita professionale di architetto. Romeo, venditore d’abiti, sogna di costruirsi un vivaio di trote e i soldi ereditati dalla madre, che per metà avrebbero dovuto andare all’ormai fratello Gustavo, che non ne ha alcun bisogno, gli servirebbero per realizzare il suo sogno.

Intorno a loro una folla di personaggi: fra cui la libraia collega di Agata, una figurina ottimamente disegnata da Giselda Volodi, un’anziana geometra che parla come se stesse leggendo una lettera d’ufficio, una bella sindaca danese non insensibile alla simpatia di Gustavo, perfino una docile gallina. Agata e la tempesta è a suo modo un film antinarrativo, premeditatamente privo di centro, dove cioè un nucleo quasi indistinto di sentimenti e suggestioni si coagula in personaggi, situazioni, suggestioni piuttosto che in una linea uniforme di racconto. Una ricchezza perfino ridondante di occasioni, suggerite dalla sceneggiatura (opera, insieme col regista e con Francesco Piccolo, della barese Doriana Leondeff: pure a quest’ultima, già autrice dello script di Pane e tulipani, va presumibilmente fatta risalire l’idea originaria del film) crea, certo, qualche problema di fusione dei diversi registri espressivi, che qua e là deve infatti cedere alla loro esuberanza. Ma un’amabile ironia ne connette i tasselli, grazie anche all’eccellente apporto degli interpreti: Licia Maglietta, attrice feticcio di Soldini, con la sua serena e mediterranea sensualità , Emilio Solfrizzi, ormai sicuro nel padroneggiare certo understatement della sua recitazione e avviato con passo sicuro ai ruoli di primo piano del cinema italiano, e Giuseppe Battiston nel bel personaggio che in parte replica quello da lui interpretato in Pane e tulipani.

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